NORMALITÀ – Essere o non essere?

13/04/2015

NORMALITÀ – Essere o non essere?

Normalità e pazzia: la cultura del giudizio e la standardizzazione dell’opinione del giusto

NORMALITÀ - Essere o non essere?

immagine di G. De Chirico

E’ molto diffuso, nella cultura occidentale, il concetto di “normalità”. La persona “normale” è intesa come giusta o sana mentalmente oppure “non pazza”. La pazzia (non normalità) è infatti spesso associata a tutti quei comportamenti o disturbi che non sono allineati alla standardizzazione delle tradizioni sociali e comportamentali territoriali o famigliari.

Esempi di come questa associazione sia di per sé discutibile li si scopre facilmente viaggiando. Accettando di visitare, di prendere in considerazione gli stili di vita di altre culture e tradizioni, è facile incorrere in qualche comportamento che risulti bizzarro agli occhi di chi ha ben radicato nei propri dettami il proprio concetto di normalità. Mentre per un italiano ad esempio ruttare a tavola è un chiaro e volgare segno di maleducazione in altri paesi è considerato un segnale di apprezzamento del cibo, così come mangiare a bocca aperta o emettere suoni durante il pasto, ecc…

Ovviamente la “normalità” non è riferita soltanto al giudizio dei comportamenti di tutti i giorni ma soprattutto a quelli che sono i modi di pensare, o peggio alla salute mentale.

L’appiattimento e la standardizzazione dell’educazione occidentale, basata sui principi della rivoluzione industriale che ci ha messo in competizione fin dalla tenera età con i nostri coetanei e poi giudicati in ogni campo educativo prima attraverso il voto (descrittivo, numerico, ecc..) e il giudizio di un insegnante e poi attraverso prestazioni lavorative giudicate da un preposto e via dicendo, ha oggettivamente predisposto le persone al giudizio degli altri e verso se stessi.

Con i condizionamenti della vita e le esperienze emotive da essa derivate, questo meccanismo ben assimilato, l’abitudine a generare una condizione di normalità o giustizia, contrapposto a tutto quello che non è più normale, standardizzato o accettato, genera e consolida il giudizio nei confronti di tutto quello che non appartiene all’idea che si è formata e via via maturata nella nostra mente. La nostra opinione del giusto e del normale.

E’ bene notare come non esista la “normalità” e a consolidare questa idea siano soltanto le nostre più intime paure che rassicuriamo allineandoci e conformandoci all’idea del giusto, del normale e del condiviso che proviene dall’esterno. Il disagio più comune, ma non percepito, è infatti il giudizio costante che serbiamo per tutto quello che ci circonda e anche di noi stessi, che di conseguenza cerchiamo di “apparire” in funzione dei giudizi positivi che abbiamo attribuito al mondo sperimentato esteriormente.

In una cultura del giudizio estremamente competitiva, dove soltanto pochi possono “vincere” (i migliori della classe, i dirigenti aziendali, i benestanti, i V.I.P., ecc..), non c’è da stupirsi che la quotidianità sia intrisa di odio, senso di rivalsa, violenza, sciacallaggio, distinzioni sociali, infamia, guerra o situazioni simili a queste. La strada è stata spianata da un’educazione che premia il migliore (in realtà il meglio allineato), il più qualitativamente standardizzato.

Ora il problema non è tanto nella persona che eccelle in un campo della vita all’interno di determinati dettami fisiologici e sociali, ma si ripercuote su tutti gli altri che prendono come riferimento, come campione, questa persona senza più rispettare le proprie originali propensioni e attitudini, senza rispettare i propri tempi, la propria emotività e senza aver realmente lavorato su se stessi, ma soltanto ad emulare qualcun’altro (idolo).

Chi risulta essere “normale”?

Sulla base delle considerazioni sopra descritte, il “normale” risulta quella persona che rappresenta un riferimento etico comportamentale e di “salute mentale” relativo all’adeguamento ai punti di riferimento accettati dalla maggioranza delle persone, in un determinato contesto socioculturale.

Che cos’è la “normalità”?

La “normalità” è quindi soltanto un codice stereotipato, un’idealizzazione di comportamento apparente che si pone come unico obiettivo la rassicurazione delle proprie paure attraverso l’accettazione al giudizio degli altri.

In definitiva, l’attenzione smisurata alla considerazione e al giudizio altrui, modella il nostro comportamento anche a scapito delle emozioni vere, che vengono talvolta addirittura represse e poi somatizzate dal corpo, il quale riflette invece la nostra autentica condizione emotiva interna.

La paura del giudizio degli altri nei confronti di una emozione o di un comportamento non approvato come “normale”, genera la necessità di nascondere o camuffare i propri veri intenti o vissuti interiori. Questo provoca, oltre all’incoerenza personale, anche una vasta alienazione commisurata alla cancellazione della verità interiore della persona. Il risultato è una diffusa ipocrisia che maschera (a se stessi e agli altri) gli intenti, le attitudini, le emozioni da elaborare, gli istinti dell’Essere mai educati ma soltanto giudicati e in definitiva, l’autenticità.

Notare come questo meccanismo scaturisca da un giudizio di se stessi modellato sui principi di accettazione e standardizzazione idealizzati. Giudicare se stessi (da non confondere con l’autocritica) equivale al non accettarsi e di conseguenza al vivere senza partire da uno stato di pace, serenità interiore e rispetto per le proprie propensioni, alla ricerca costante di una perfezione ideale non raggiungibile attraverso il confronto con gli altri. L’angoscia (sintomo) generata dall’ipotesi di non sentirsi adeguati, pronti o peggio ancora “perfetti” è soltanto un primo segnale di un esistenza incongruente. E’ la conseguenza della prioritaria importanza data al risolvere un problema in realtà del tutto marginale rispetto alla propria salute.

Chi non racconta la verità a se stesso vive nella menzogna. Vive una vita fasulla e degrada il proprio Essere.

L’individuo (talvolta neppure preso in considerazione nella sua totalità ma solo come persona in quanto estetica corporea) non è stato educato a prendere il comando ma solo ad essere soppresso, accantonato, appiattito. Nasce nella persona sempre più diffusa la sensazione di non sentirsi rispettata dagli altri mentre in realtà la prima a non rispettarsi è la persona stessa.

Nella realtà sociale contemporanea dove i tempi della vita quotidiana sono sempre più frenetici e adeguati a necessità economiche e materiali invece che modellati intorno alle reali necessità dell’individuo, ai ritmi naturali e alla ricerca della gioia degli esseri umani, non è difficile comprendere come disagi quali stress, scatti d’ira, stati d’ansia, depressione siano sempre più diffusi. L’individuo ha costruito maschere di se stesso costituite da menzogne, dalla non accettazione della verità e della propria autenticità da sempre giudicata ed accantonata. La soluzione è rielaborare la propria autenticità, ricominciare a rispettare se stessi, il proprio Essere attraverso un percorso introspettivo, non assumere un farmaco. Il farmaco può rappresentare un rimandare, un palliativo chimico per accantonare anche il sintomo senza aver affrontato la verità. Il sintomo è un segnale del nostro corpo con l’utilità di comunicarci qualcosa che non va, seppur fastidioso – d’altronde se non fosse fastidioso non gli daremmo importanza.

Ecco che risulta meglio comprensibile la frase ironica del Prof. Erich Fromm che diede scalpore e fu largamente mal interpretata e strumentalizzata a suo tempo: “I normali sono i più malati e i malati sono i più normali”. Quello che intendeva dire Fromm, giocando spiritosamente sul termine normalità (ironia mai compresa dalla maggioranza delle persone – la normalità non esiste è solo un’idealizzazione) è che le persone cosiddette “pazze”, che ancora subiscono il sintomo, si dovrebbero considerare fortunate proprio perché il corpo continua a dare segnali; sintomi creati dall’accantonamento delle emozioni e dalla mancanza di educazione nel riconoscere, ascoltarle e gestirle al meglio per creare una condizione mentale sana e rispettosa di sé. I “malati”, anche questo un termine ironico per chi ha compreso Fromm ma necessario per farsi capire dai Media che utilizzano spesso ancora oggi le parole con molta leggerezza, sono di conseguenza le persone meno allineate, che hanno ancora la possibilità di risalire al loro malessere e guarire, curasi, ovvero avere cura di se stessi; sono infatti fortunati ad essere lontani da uno stato di standardizzazione e appiattimento esserico che ha all’apparenza cancellato i sintomi nelle persone cosiddette “normali”. Esse hanno modellato in realtà la loro vita intorno alla paura (paura di non piacere, di non avere i soldi, di non avere l’auto giusta, di non essere vestiti adeguatamente, di non farcela, del diverso, di non essere ritenuti normali, di perdere il lavoro, ecc..) accettandola e identificandocisi. Questo meccanismo culturale estremamente radicato è naturalmente malsano e può essere affrontato soltanto con un lavoro personale, con il coraggio di mettersi in discussione senza giudicarsi, prendendosi la responsabilità del proprio modo di vivere in quanto possibile e plausibile causa dei propri disagi.

In Italia è scarsamente preso in considerazione il benessere psicologico ed emotivo. E’ cultura diffusa ritenere che lo Psicologo Psicoterapeuta sia il “medico dei pazzi”. Intraprendere un percorso personale affiancati da uno Psicologo Psicoterapeuta, una figura in grado di tradurre gli archetipi mentali distorti dai condizionamenti del vissuto, significa amarsi, prendersi la responsabilità di mettere in discussione se stessi per rielaborare in modo sano e costruttivo il vissuto. Non significa essere “pazzi” o “non normali”.

Non si curano soltanto i malati, ci si prende cura di tutto ciò che si ama.

“Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione. Perché la tua coscienza è quello che tu sei, la tua reputazione è quello che gli altri pensano di te. E quello che gli altri pensano di te è problema loro” – Charlie Chaplin

“La normalità è una strada pavimentata: è comoda da percorrere ma nessun fiore vi cresce” – Vincent Van Gogh

Dott.ssa Marcella Caria


ATTENZIONE! Il materiale pubblicato è volto ad essere spunto di riflessione sui temi trattati e non vuole essere in alcun modo sostitutivo di indicazioni e/o trattamenti terapeutici. La gestione di difficoltà e disagi emotivi deve sempre essere affrontata con l’aiuto  di professionisti del settore. E’ pertanto importante contattare direttamente una figura professionale competente affinché possa valutare la specifica situazione e fornire le adeguate indicazioni terapeutiche.
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