DISPOSOFOBIA – Smarrire l’identità tra i propri oggetti

10/11/2014

DISPOSOFOBIA – Smarrire l’identità tra i propri oggetti

“Senza queste cose, non sono nulla” – Un paziente disposofobico

DISPOSOFOBIA – Smarrire l'identità tra i propri oggetti

immagine di Hong Hao

Nella maggior parte delle società occidentali, l’interazione tra le persone e ciò che possiedono rappresenta un’aspetto centrale della vita. Si possono trovare casi di disposofobia in ogni parte del mondo e se ne hanno tracce descrittive già a partire dal XIV secolo. La disposofobia però non è mai stata così tanto diffusa e visibile nelle culture occidentali come adesso. L’abbondanza di oggetti poco costosi e la diffusione della cultura consumistica la rendono il disturbo del decennio.

Per molte persone è una gran fatica disfarsi delle proprie cose, anche delle più inutili, così tante volte oggetti rotti o inutili si accumulano nei cassetti, negli armadi e nelle soffitte. In questo articolo non intendo però parlare di una “innocente” tendenza, ma desidero tracciare il confine psicopatologico di quei soggetti che sono in grado di trasformare un appartamento altrimenti spazioso in un dedalo di stretti corridoi tra pile di cianfrusaglie e cumuli di oggetti.

Che cos’è la disposofobia?

Sarà capitato a molti di assistere sbigottiti a programmi TV dove si vedono persone che vivono accumulando oggetti di ogni sorta, in case letteralmente intasate dalle cose che possiedono oppure di vivere a contatto o nelle vicinanze di questi accumulatori. Quello che viene mostrato in questi programmi è un vero e proprio disturbo psicologico: la disposofobia o disturbo da accumulo. La disposofobia non è determinata dal numero di oggetti posseduti, ma da come la loro acquisizione e la loro gestione si ripercuote sul proprietario causandogli sofferenza oppure pregiudicandogli la capacità di svolgere comuni attività.

Le persone affette da questo disturbo riempiono lo spazio in cui vivono a prescindere dalla sua grandezza. L’eccessivo disordine, fuori controllo, è marchio distinguibile dell’accumulatore e la caratteristica che più causa disagio e disturbo. Persone con tendenze disposofobiche creano relazioni con ciò che possiedono invece che con gli altri. La loro inclinazione all’accumulo compulsivo tuttavia porta ad una chiusura sociale, sono isolati e sospettosi oltre a preferire la compagnia degli oggetti a quella delle persone. Più che rimpiazzare le persone con oggetti si servono degli oggetti accumulati per sviluppare connessioni tra persone, ricordi e il mondo intero. Il valore che danno agli oggetti e le ragioni per accumularli sono quindi molte e varie, in quanto gli suscitano sentimenti di attaccamento emotivo.

La dipendenza al contatto visivo con i propri oggetti è un altro tratto comune dei disposofobici. Questo causa spesso un disagio al soggetto che, tra le grandi quantità di cose, finisce per ritenere quelle che non trova e non vede “perdute” e questo gli causa uno stato di frustrazione e smarrimento, come se le avesse effettivamente perse. Perdendo oggetti tra i propri cumuli, combattono la frustrazione acquistandone altri in sostituzione.

Per mantenere l’ordine solitamente una persona necessità dell’abilità di valutare il valore e l’utilità di un oggetto, ma questi processi mentali generano particolare difficoltà nei soggetti disposofobici. La maggior parte dei disposofobici è capace di buttare via oggetti solo se riesce a convincersi che questi non saranno sprecati, che saranno utilizzati da qualcuno o che le opportunità che offrivano non sono più valide. La grande quantità di tempo necessario a questa valutazione e lo sforzo per farlo, rendono però impossibile stare dietro al volume di cianfrusaglie che nel frattempo entrano in casa. Accade spesso che questa gestione fallimentare li renda arrendevoli all’inesorabile accumulo. Le persone con un’inclinazione all’accumulare tendono ad essere figure solitarie che si distanziano dagli altri. La maggior parte di esse si vergogna per il fallimento a controllare il disordine e sono riluttanti a mostrare le condizioni della propria casa agli altri. Questo genera una seria difficoltà a frequentare o avere relazioni sociali con qualcuno. Questo senso di vergogna può contribuire allo sviluppo di ansia sociale o nei casi peggiori anche di fobia sociale. Questo tipo di ansia può invalidare lo sviluppo di relazioni intime e rappresenta uno dei principali motivi per i quali i disposofobici faticano a maturare relazioni sociali di qualunque tipo.

Una mia paziente, un’accumulatrice di animali, mi raccontò che stava cercando disperatamente qualcuno da amare. In quasi cinquant’anni non aveva mai avuto una relazione sentimentale seria. Le era difficile instaurare una relazione profonda con un uomo per timore che questi potesse visitare casa sua. Anche se non aveva mucchi di cianfrusaglie aveva dozzine di gatti. Dalla sua casa si sprigionava un forte odore di urina di gatto e i vicini avevano manifestato più volte le loro rimostranze, arrivando anche a chiedere l’intervento delle autorità. Ammise che i suoi gatti “tenevano vivo il suo amore” fino a quando non avrebbe trovato un fidanzato. Ma proprio i suoi gatti diventavano la causa della sua difficile vita relazionale.

La tendenza a non buttar via niente diventa seriamente patologica quando la quantità di oggetti inutili rende inutilizzabile intere aree della casa e compromette fortemente la vita degli interessati e dei famigliari. Questo disturbo mentale è meno raro di quanto si pensi ed in sensibile incremento. Le stime attuali parlano del 2-5% della popolazione appartenente alle società occidentali. Esistono infine diverse varianti della disposofobia. Il Collezionismo Compulsivo, l’Animal Hoarding (compulsione all’aggruppamento di animali – gatti in preferenza) e la Disposofobia Infantile sono ad oggi le principali e più diffuse. Ad oggi tutte le forme di disposofobia negli adulti sono accomunate dal senso di responsabilità dei soggetti nei confronti dello spreco, una caratteristica tutt’altro che deprecabile. Questa tendenza rispecchia un intelletto particolarmente aperto e sensibile alle caratteristiche del mondo.

Avere o Essere

Studiando la disposofobia pare evidente che possedere oggetti nelle proprie case significa essere posseduti dagli oggetti stessi. Gli oggetti che si possiedono portano con loro un fardello di responsabilità che include l’acquisizione, l’uso, la cura dell’oggetto, la sua conservazione e infine il suo smaltimento. Negli ultimi cinquant’anni l’ampiezza di queste responsabilità per ognuno di noi è aumentata in modo esponenziale con il crescere del numero di oggetti posseduti. L’avere così tante cose ha provocato uno spostamento del nostro comportamento dall’interazione umana all’interazione con questi oggetti inanimati. Per fare un esempio, i bambini di oggi passano maggior tempo su internet, giocando a video games oppure guardando la TV da soli piuttosto che interagendo con famigliari e amici. Gli oggetti che in origine promettevano di rendere la vita migliore e di aumentare il tempo libero hanno generato l’effetto contrario. Entrambi i genitori spesso lavorano per molto tempo per permettersi un assortimento di comodità in continuo aumento, ma che li porta a passare sempre meno tempo in famiglia. Questo è in parte una conseguenza della commercializzazione della nostra cultura.

Una generazione fa, nel 1947, lo psicoanalista e filosofo umanistico Erich Fromm aveva preannunciato una società ossessionata dagli averi. Argomentava che gli uomini possono essere caratterizzati da uno di questi due orientamenti di base verso se stessi e verso il mondo durante l’esperienza di vita: “essere” o “avere”. Questi orientamenti determinano in larga misura ciò che le persone pensano, come si sentono e come agiscono. Una persona con un orientamento diretto al possesso, all’avere, cerca di possedere ed acquisire cose o perfino persone. Il possesso è la chiave del senso d’identità della persona e del significato del mondo, essa si fa rappresentare da tutto ciò che possiede (auto, case, vestiti, impiegati, ecc…). Ecco come, la diffusione del materialismo, attraverso il consumismo più sfrenato, ha portato ad una società malata, schizofrenica, nella quale si assiste sempre più di frequente alla situazione paradossale nella quale le persone amano gli oggetti ed usano le persone. Secondo Fromm una cultura consumistica è in sintesi condannata a promuovere un orientamento all’avere e risultare vuota e insoddisfatta. Al contrario, una persona orientata all’essere è focalizzata in primis alle esperienze piuttosto che agli averi e trae significato dalla condivisione e dal coinvolgimento con altre persone o esseri viventi.

Gli scienziati sociali descrivono l’orientamento ad avere col termine “materialismo” e hanno svolto considerevoli ricerche che hanno col tempo confermato quanto preannunciato da Fromm. Gli averi giocano un ruolo fondamentale nella vita dei materialisti. Sono mezzi di auto-miglioramento, che danno identità e prestigio sociale e che motivano le attività quotidiane. Dagli oggetti essi si aspettano il raggiungimento della felicità, ma beffardamente gli averi sembrano produrre l’effetto contrario.

[da “Avere o Essere”, Erich Fromm] “Qui, mi limito a rilevare che, per quanto riguarda il tempo libero, automobili, televisione, viaggi e sesso [oggi si dovrebbe doverosamente aggiungere i Social Network – n.d.r.] costituiscono i principali oggetti dell’odierno consumismo; ne parliamo come di attività del tempo libero, ma faremmo meglio a definirle passività del tempo libero. Per riassumere: consumare è una forma dell’avere, forse quella di maggior momento per l’odierna società industriale opulenta. Il consumo ha caratteristiche ambivalenti: placa l’ansia, perché ciò che uno ha non può essergli ripreso; ma impone anche che il consumatore consumi sempre di più, dal momento che il consumo precedente ben presto perde il proprio carattere gratificante. I consumatori moderni possono etichettare se stessi con questa formula: io sono ciò che ho e ciò che consumo”.

Materialismo e Disposofobia 

Sebbene il materialismo costituisca una parte della sindrome da accumulo compulsivo, c’è una differenza sostanziale tra le persone semplicemente materialiste e quelle che soffrono di disposofobia. Per le persone materialiste gli averi sono segni esteriori di successo e autorità, e in taluni casi status symbol che presentano la persona al mondo fino a rappresentarla. Sono caratteristiche di una persona destinata ad esibirsi in pubblico per mostrare i propri beni materiali in rappresentanza o addirittura in sostituzione di se stesso, come segno di successo e status sociale. Al contrario, una persona disposofobica farà di tutto per nascondere ciò che possiede dalla vista altrui. La finalità del disposofobico non è finalizzata a creare attraverso gli oggetti un’identità pubblica, ma bensì privata. Gli oggetti diventano parte di quello che è l’accumulatore, non della facciata che mostra al mondo. A riguardo, un mio paziente arrivò ad affermare: “Senza queste cose, non sono nulla”.

“Se io sono quello che ho e quello che ho è perduto, allora chi sono io?” – Erich Fromm

Farsi aiutare è sempre un atto di coraggio

Le persone che soffrono di questa tipologia di disagio possono convivere con l’alienazione dalla propria autenticità, o nel caso dei disposofobici dalla mancanza di un propria identità, per lungo tempo.

La parte più difficile del processo d’aiuto passa sempre per la propria consapevolezza di necessitarne. Per molte persone farsi aiutare richiede un autentico sforzo, una barriera insormontabile confortata da una ripetitiva falsa quotidianità o da piccoli raggiungimenti momentanei (il week end, il tale evento, un compenso economico, ecc…).

Le persone disposofobiche hanno più possibilità di rivelare a se stesse la propria necessità d’aiuto. Infatti, le difficoltà alla socializzazione possono aiutare a rendere necessaria una presa di coscienza – come nel caso precedentemente citato della paziente incapace di trovare un compagno da amare. Al contrario ciò non si può dire delle persone materialiste, che hanno fatto della loro apparenza, costruita in sostituzione della propria autenticità, il loro miglior raggiungimento sociale. Questo “successo” sociale, raggiunto attraverso la materialità, rappresenta una barriera invisibile tanto difficile da riconoscere quanto maggiore e confortevole è il “successo” acquisito.

La disposofobia è un disagio che necessita sempre del supporto di professionisti competenti in ambito di salute mentale. Qualora vi riconosceste in questo genere di esperienza personale, è importante che vi rivolgiate ad uno psicologo psicoterapeuta, accertandovi della sua competenza e serietà. Essere aiutati è possibile e questa necessità può essere maturata soltanto dalla vostra consapevolezza.

Dott.ssa Marcella Caria


ATTENZIONE! Il materiale pubblicato è volto ad essere spunto di riflessione sui temi trattati e non vuole essere in alcun modo sostitutivo di indicazioni e/o trattamenti terapeutici. La gestione di difficoltà e disagi emotivi deve sempre essere affrontata con l’aiuto di professionisti del settore. E’ pertanto importante contattare direttamente una figura professionale competente affinché possa valutare la specifica situazione e fornire le adeguate indicazioni terapeutiche.