DEPORTAZIONE – Il trauma psicologico della deportazione

27/01/2015

DEPORTAZIONE – Il trauma psicologico della deportazione

Il rientro a casa e la necessità di esternare per riconquistare un’identità

DEPORTAZIONE - Il trauma psicologico della deportazione

immagine tratta dal Museo dell’Olocausto (Israele)

Quando finalmente i Lager nazisti vennero aperti, dopo la liberazione da parte degli Alleati nel 1945, quelle che si potrebbero definire le felici circostanze della finita prigionia sono state invece per i deportati dense di sofferenza. Le numerose testimonianze ci raccontano come la desiderata libertà e il ritorno a casa racchiudono numerose difficoltà. Gli ostacoli non riguardano solamente il tentativo di riacquistare le forze fisiche perdute, ma di ritrovare le energie psichiche per affrontare la ricostruzione della propria personalità. La liberazione concreta e l’uscita dal Lager non coincidono con la liberazione della persona: il rientro a casa, il bisogno di ristabilire i contatti con il mondo e le persone, la necessità di essere come gli altri e di essere accettati dagli altri sono le tappe di un lungo cammino verso la riconquista della propria dignità. Dominati da un enorme edificio di violenza e minaccia, gli ex deportati percepiscono, una volta liberati, di essere stati derubati della propria identità: la prigionia ha trasformato i pensieri e i desideri, tutto si riconduceva hai bisogni primari di sopravvivenza; le violenze e le percosse subite avevano condotto ad una condizione di appiattimento; il contatto quotidiano con la morte aveva indotto per difesa a non provare più nessuna emozione.

Il momento della liberazione non è stato né lieto né spensierato, ma denso di emozioni complesse: impotenza, umiliazione, vergogna e senso di colpa occupano una posizione predominante. Come afferma Primo Levi “la condizione di offeso non esclude la colpa” e, infatti, a liberazione avvenuta emerge l’inadeguatezza e un senso di indegnità per essere vivo al posto di un altro. Il fatto di essere tra i pochissimi che si sono salvati, quando milioni di altri hanno trovato la morte, sembra comportare uno speciale obbligo morale a giustificare la propria fortuna e la propria esistenza. I superstiti avvertono un senso di colpa nei riguardi dei compagni non tornati, come se il significato della propria vita coinvolgesse il significato della morte di tutti gli altri. L’aver vissuto sotto la minaccia diretta e continua di essere ucciso e il sapere che altri, tra cui amici e famigliari, sono stati effettivamente uccisi, costringe a combattere per il resto della vita con l’insolubile dilemma: “Perché proprio io?”. La persona cerca di rispondere razionalmente affermando che quanto accaduto è stato per pura e semplice fortuna e che non esiste altra spiegazione. Questa logica interpretazione è però inquinata dal pensiero latente “io sono vivo perché gli altri sono morti” che può significare anche “gli altri sono morti per me” cioè mi hanno fatto il dono della vita che ho l’obbligo di ricambiare.

La sensazione di impotenza, conseguente al trauma della deportazione, coincide con un’ondata di ripensamenti e di depressione: tristezza, senso di inutilità, mancanza di spinta vitale sono solo alcune delle emozioni provate. Emerge la consapevolezza di non aver lottato contro i propri aggressori, di non aver fatto abbastanza contro il sistema. L’inadeguatezza conseguente a tale mancanza ritorna nell’esistenza del “dopo” come se il superstite si sentisse, consapevolmente o no, imputato e giudicato, spinto a difendersi e a giustificarsi: “anche tu forse avresti potuto” è il giudizio che il reduce vede, o crede di vedere, negli occhi di coloro che ascoltano i suoi racconti e giudicano con il facile senno del poi. I sopravvissuti provano vergogna per la colpa che altri e non loro hanno commesso, percependo che quanto accaduto intorno a loro, e in loro, è stato irreparabile. Gli ex deportati si sentono diversi, sentono che quanto è accaduto li ha profondamente mutati, percepiscono che gli altri li vedono diversi o sentono di essere percepiti dagli altri come estranei. Nasce così la decisione di non raccontare nulla per il timore di non essere creduti o per il sospetto di essere derisi. Prevale il bisogno di nascondersi, di sparire, per proteggere se stessi e le proprie ferite, di evitare di rendere pubblico quello che è accaduto.

Al contrario, come conferma ancora Primo Levi, chi ha sperimentato la prigionia e attraversato esperienze severe può scegliere anche di parlare e portare testimonianza. Parlano coloro che riconoscono nella loro prigionia il centro della loro vita, l’evento che nel bene o nel male ha segnato la propria esistenza; parlano e, attraverso il racconto, consolidano la propria identità e percepiscono accresciuto il proprio prestigio. Ci insegnano che raccontare, esternare, diventa il mezzo per esprimere ed elaborare ciò che è nascosto nel profondo, un modo per alleviare e mitigare le emozioni legate alla traumatica esperienza; oltre a ricordare chi non è tornato e condividere per educare le generazioni future.

Dott.ssa Marcella Caria


ATTENZIONE !  Il materiale pubblicato è volto ad essere spunto di riflessione sui temi trattati e non vuole essere in alcun modo sostitutivo di indicazioni e/o trattamenti terapeutici. La gestione di difficoltà e disagi emotivi deve sempre essere affrontata con l’aiuto  di professionisti del settore. E’ pertanto importante contattare direttamente una figura professionale competente affinché possa valutare la specifica situazione e fornire le adeguate indicazioni terapeutiche.